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Interventi, opinioni e pensieri sul mondo degli adolescenti

MINDFULZEN

Posted by Andrea Canavese | 06/06/18

Quando siamo illusi c’è un mondo da fuggire.
Quando siamo consapevoli non c’è niente da cui fuggire.
– Bodhidharma –


Se riuscirai a comprendere
che lo zazen è la grande porta della legge,
sarai come il drago che entra nell’acqua
o la tigre che rientra nel folto della foresta.
– Eihei Dogen-

Nell’a tratti strano mondo della Psicologia, succede a volte che tradizioni nobili ed antiche vengano studiate e sperimentate così tanto che divengono patrimonio del sapere professionale.
Questo è stato il caso della maieutica di Socrate, ovvero l’arte grazie alla quale, come scrive Platone nel Teeto, è possibile aiutare una persona a partorire la verità tramite il dialogo (infatti il termine “maieutica” deriva da μαιευτική, maieutiché, che vuol dire “ostetrica”).
Sigmund Freud, da grande amante e conoscitore della cultura classica qual era, ha derivato l’arte terapeutica (psicoterapia, in greco antico, vuol dire “a servizio dell’anima”) della Psicoanalisi proprio partendo da questo concetto, scoprendo così che è solo in una relazione dialettica fra due soggetti che dialogano ci può essere una vera cura.
Ai giorni nostri, questo è il caso della mindfulness, termine col quale viene tradotto (in inglese! Qui potremmo dire molte cose sulla forte, e non sempre giustificata, esterofilia che serpeggia in Italia – ma su questo argomento non basterebbero dieci post!) il termine sanscrito Sati, traducibile come “consapevolezza attenta” del proprio sé che pensa ed esperisce.
Il che non è per nulla un male, non è di per sé un problema se nella nostra era contemporanea si studiano e si propongono pratiche volte al benessere dell’individuo: l’importante è conoscere l’origine storica di tali utili e buone tecniche.
Nel mondo della psicoterapia odierna, si può consigliare un percorso di mindfulness, ovvero una forma di meditazione (più o meno spogliata dei riti buddhistici) che può aiutare a entrare in contatto, sentendoli nella mente e nel corpo, con i propri sentimenti più profondi.
La mindfulness, come pratica, si basa sulla ricerca di una consapevolezza di sé (nel pensiero e nel corpo, delle cose piacevoli come di quelle spiacevoli) raggiungibile in presa diretta, qui e ora, seguendo tre principi di base che consistono nel prestare attenzione:
• Con intenzione
• Al momento presente
• Senza giudizio


Ovvero, dare pieno risalto all’esperienza intima e profonda del momento.
Quando mi sono avvicinato alla meditazione avevo bisogno di dare una stabilità ai miei pensieri, di vederli passare per comprenderli appieno: la psicoanalisi mi aiuta a vedere e capire quello che succede, la meditazione mi aiuta a stare fra gli spazi di quello che accade.
Ho scelto la pratica dello zazen perché sono da sempre un appassionato di manga e anime, amo profondamente la cultura nipponica e sono da anni un amante della filosofia relativa al buddhismo Zen. Certo non sapevo che avrei trovato un metodo che mi avrebbe fatto scoprire quanto Cartesio avesse torto, altro che res cogitans e res extensa, mente e corpo sono una res unica!
Quando sono stato introdotto alla pratica, la prima cosa che ho imparato è che non ero capace di stare seduto: sentivo dolore in parti del mio corpo che a malapena credevo esistessero, figurarsi se potevo immaginare che fossero sensibili…
Prima ancora di pensare ai pensieri, ho dovuto rendermi conto di avere un corpo: sapevo di possederne uno, sapevo di averlo mai molto apprezzato, ma non sapevo quanto esso si comportasse in modo (apparentemente) involontario: pruriti, indolenzimenti, fastidi muscolari cui corrispondevano impazienza, fretta, rabbia.
Il semplice stare seduto immobile, tanto semplice non era, per nulla – altro che mente vuota, come leggevo nei libri dei maestri zen…
Si, perché se si chiama pratica, scoprivo, un motivo c’è: la meditazione si fa, mica si studia!
In terapia sono entrato in contatto con un altro che mi aiuta a sentire, provare e elaborare i miei stati del sé (freddo termine tecnico per definire sensazioni, emozioni e sentimenti), in meditazione provo quelle stesse sensazioni ancor di più legate al mio corpo: vedo, mi accorgo come ogni parte di me è correlata alle altre – è come i sistemi quantistici nei quali ogni cosa è legata, anche in modi a noi impercettibili, con le altre in una mutua e a volte imprevedibile influenza reciproca.
Ho sempre avuto la sensazione che la mia mente vagasse chissà dove, già alle elementari le maestre mi dicevano che avevo la testa sulla luna (altro che nuvole…), e nella posizione seduta mi rendo conto di quanto questa cosa sia profonda e di quanto il mio corpo segua dei pensieri che quasi non sento di pensare: nell’immobilità provo la fattualità della mente, nella concentrazione mi sento in mezzo a una cascata di scariche elettriche (il lavorio delle sinapsi dei neuroni), e inizio a non seguire più ogni sensazione, a non lasciami guidare senza controllo da ogni emozione, a non patire ogni sentimento.
Nella meditazione camminata mi rendo poi conto di quanto poco equilibrio ho, di quanto la mia postura sia scorretta… una volta, mentre per poco non cadevo per terra, il maestro mi ha detto: “non sei concentrato! Non lasciarti guidare dai pensieri, stai lì con te stesso, respira bene, stai bene dritto, un passo alla volta starai in piedi!” – lapidario e diretto come solo i maestri zen sanno essere, e aveva ragione.
La nostra mente naturalmente vaga osandosi da un punto all’altro, deve farlo per farci capire cosa succede nell’ambiente esterno attorno a noi (è l’evoluzione: mettete mai che arrivasse un predatore nascosto dietro l’angolo, sarebbe un gran problema), solo che essa è uno strumento ormai talmente affinato che lo fa fin troppo bene, in modo quasi completamente inconscio.
La meditazione può sembrare facile, ma non lo è per nulla, anzi, all’inizio può essere perfino dolorosa per i tendini e i muscoli non abituati alla pratica, ma è un mezzo millenario perfezionato che permette di vedere tramite il corpo cosa abita la nostra mente, quali pensieri vengono ospitati in essa: è un viaggio nelle nostre rappresentazioni psicologiche, alle volte può perfino fare un po’ di paura, ma in fondo anche questo brutto sentimento è solamente un pensiero che passa.
Nel Bodai Dojo di Alba (CN) ho potuto iniziare a imparare anche l’arte pittorica del sumi-e, una peculiare forma di pittura a inchiostro di origine cinese direttamente collegata con la meditazione Zen (infatti l’esperienza più profonda e bella consiste nel dipingere dopo aver fatto zazen).
In piedi, mantenendo la postura e la respirazione corrette, si impara ripetendo con disciplina, a mettere su carta una rappresentazione della nostra mente in quel preciso momento, come insegna il maestro e monaco Beppe Mokuza Signoritti, appartenente al lignaggio Zen Soto dei maestri Kōdō Sawaki, Taisen Deshimaru e Roland Yuno Rech (di cui è allievo diretto): “bisogna essere il gesto, ovvero comprendere la non-differenza fra pensiero, parola e gesto”.
Non nego e non nascondo la mia personale sorpresa e gioia di quando vedo, tramite l’aver dipinto un bambù, una parte di me: è la base del test di Rorschach, è la madre dell’arteterapia, è la realizzazione del mio sogno adolescenziale di poter dipingere che si manifesta di fronte a me, esercizio dopo esercizio, con calma, pazienza e rigore.
Dalla mia mente, dal mio corpo, dalle mie mani, nascono figure e rappresentazioni che sono sia standard (all’inizio, per imparare la tecnica) che irriducibilmente mie: Marion Milner, psicoanalista, aveva ragione quando pensava la pittura come un ponte che mette in comunicazione gli spazi fra inconscio, sogno e creatività.
Ma come si fanno zazen? Semplicemente seduti!
Come dice Beppe Mokuza, “per prima cosa mettetevi correttamente in za (seduti), poi arriva lo zen (meditazione)!”
[avvertenza: quello che segue va inteso a scopo puramente illustrativo, a chi volesse provare l’esperienza della meditazione raccomando di rivolgersi a un maestro esperto.]

LE TECNICHE DELLA PRATICA
Passiamo ora alla spiegazione dello zazen, la meditazione seduta silenziosa, e del sumi-e, lo stile pittorico sviluppatosi originariamente in Cina durante la dinastia Tang (618 – 907 d.C) e successivamente introdotta in Giappone circa cinquecento anni fa da alcuni monaci buddisti zen e successivamente consolidatasi nell’era Muromachi (1338 – 1573 d.C).
Entrambe queste discipline verranno introdotte seguendo la tradizione buddhista Zen Soto, scuola fondata dal monaco buddhista Eihei Dōgen nel XIII secolo che si basa sui principi dello shikantaza (rimanere semplicemente seduti – shikan: rimanere coinvolti senza fare altro, darsi interamente; ta: toccare; za: la postura degna di nota con cui vi sedete) e dello mushotoku (senza profitto personale, avidità, desiderio attaccamento, odio o rancore).
Nelle parole del maestro anziano (roshi) Taisen Deshimaru, I° patriarca Zen d’occidente: “Se non pensiamo che al solo risultato, che al frutto, con la nostra coscienza personale non possiamo concentrarci né lasciar manifestare pienamente la nostra energia. Se si produce solamente lo sforzo, allora, il più grande frutto apparirà inconsciamente, naturalmente”.
I risultati delle ricerche hanno dimostrato come la pratica meditativa possono portare a un marcato decremento dei livelli di ansia, depressione e stress (riduzione del tasso di cortisolo), negli adolescenti in particolar modo se la pratica viene unita a esperienze che integrino anche una componente di movimento quali possono essere, ad esempio con il kinhin, cioè la meditazione zen camminata (vedi sotto), nella quale vanno mantenute delle peculiari postura, respirazione e concentrazione sul proprio corpo. L’adolescenza è l’età del corpo che va esperito e pensato mentre si trasforma: dalla forma infantile infatti esso si sessualizza (lo sviluppo definitivo dei caratteri sessuali fisici, interni ed esterni, allo scopo riproduttivo) e si erotizza (sentire e vivere appieno, da soli o con l’Altro, il corpo in tutte le sensazioni e come mezzo per avvicinarsi agli altri).
Una buona pratica può aiutare quindi a sviluppare il sentimento della compassione verso se stessi e gli altri, riducendo l’ansia dovuta alla scuola, il rimuginio e incrementando la tolleranza verso i propri ed altrui errori, la capacità di addormentarsi, il comportamento pro-sociale (altruismo) e il saper prendere decisioni.
Come scrive il maestro zen Shunryu Suzuki: “persino nello zazen può capitare che perdiate voi stessi (ma) siccome perdete voi stessi, il vostro problema diverrà un vero problema per voi. Se non perdete voi stessi, anche se avete delle difficoltà, in effetti non c’è alcun problema di sorta.
Quando voi siete voi stessi, vedete le cose così come sono, e diventate tutt’uno con ciò che vi circonda. Lì si trova il vostro vero sé. E’ per questo che dobbiamo sempre richiamarci a noi stessi come un medico che si ascolta”.

Philip Bromberg, uno dei più noti e saggi fra gli psicoanalisti relazionali, descrive la nostra mente come una sorta di rete nella quale sono rappresentati i nostri stati interni del sé (emozioni, umori, sentimenti…) che, quando entrano in contatto con la nostra coscienza e con la nostra esperienza immediata, qui e ora, vengono poi messi in atto nel comportamento.
Quante volte ci diciamo: “mi ha preso la tristezza” o “la rabbia si è impossessata di me”? La rabbia e a tristezza sono sempre presenti nella nostra mente, e quando una particolare situazione ce le fa sentire con forza, ecco che entriamo in uno stato del sé particolarmente caratterizzato da tale emozione e agiamo/pensiamo di conseguenza: siamo tristi e piangiamo o siamo arrabbiati e spacchiamo tutto (o vorremmo farlo…).
Bene, con lo zazen si può imparare a pensarlo, si, ma non farlo!
In fondo, è sempre e solo un pensiero che scorre via.

Zazen
Si pone un tappetino quadrato e sottile (zafuton) o una coperta di fronte al muro e un cuscino tondo (zafu) alto e non morbido sopra di esso. Ci si siede sul cuscino tondo e si incrociano le gambe: piede destro sulla coscia sinistra, piede sinistro sulla destra. È la posizione detta kekkafuza (posizione del loto).

Se non è possibile assumere questa posizione, è sufficiente mettere un piede sulla coscia della gamba opposta, nella hankafuza (posizione del mezzo loto).
[nella foto sono illustrate altre maniere di mantenere la postura za, qui vengono descritte le due principali]
Non ci si deve sedere nel centro esatto del cuscino tondo, piuttosto quasi sul bordo, lasciandone libera la maggior parte dietro la schiena. Il peso del corpo dalla vita in su in questo modo viene appoggiato su tre punti fermi: le ginocchia (sul cuscino quadrato o coperta) e il sedere (sul cuscino tondo).
Il collo si tiene eretto e si fa rientrare bene il mento.
La testa si tiene dritta, le spalle invece vanno tenute rilassate, sciolte dalle tensioni.
La mano destra riposa appoggiata sulla pianta del piede sinistro: la mano sinistra è posata nel palmo della destra. I pollici si toccano leggermente senza toccare le altre dita: la forma delle mani disegna così una specie di ellisse: questo è lo hokkai-join (mudra cosmico).

La testa non deve inclinare né avanti né indietro, né a destra né a sinistra: quindi le orecchie sono allineate alle spalle e il naso all’ombelico.
La bocca si tiene chiusa, la lingua contro il palato dietro ai denti.
Gli occhi si tengono leggermente aperti, guardando un punto imprecisato verso il basso, con un’angolazione di circa 45 gradi. Non occorre concentrarsi su di un qualche punto particolare, basta lasciare che ogni percezione trovi posto nello sfondo della propria area visiva. Se si tengono gli occhi chiusi si rischia più facilmente di lasciarsi prendere dai pensieri illusori (oppure e anche di addormentarsi o di sognare ad occhi aperti…).
Una volta assunta la posizione, espirate profondamente in silenzio.
Non bisogna mantenere la concentrarsi su nessun oggetto in particolare, né controllare i pensieri. La mente raggiungerà la calma in modo naturale una volta che la postura seduta corretta verrà mantenuta e la respirazione si sarà stabilizzata. Quando vari pensieri vengono alla mente, non lasciarsi catturare né tanto meno combatterli. Non inseguirli, né fuggirli. Lasciare semplicemente i pensieri scorrere liberi, permettendo loro di andare e venire a piacimento: così si può cercare il risveglio (kakusoku) dalla distrazione e dal torpore e tornare nella posizione corretta momento per momento.
Questo è quello che intendeva il maestro Kosho Uchiyama Roshi quando parlava di aprire la mano al pensiero: non tenerli chiusi come in un pugno, non rimanerne attaccati, ma osservarli e lasciarli scorrere.

Kinhin
La meditazione si può fare anche in piedi, camminando secondo una tipica postura: in questo caso si definisce il kinhin (“camminata in fila”).
Si cammina in senso orario lungo la stanza tenendo le mani in posizione sassho (chā shǒu), il mudra che accompagna la pratica della meditazione camminata: una mano è chiusa a pugno mentre l’altra copre il pugno, ambedue appoggiate sul plesso solare.
Dai fianchi in su, la posizione è la medesima dello zazen.
Si fa il primo passo con il piede destro e si avanza di mezzo passo ad ogni respirazione (espirazione/inspirazione).
Camminare lentamente e dolcemente, quasi come se si fosse fermi, senza trascinare i piedi né fare rumore. Si cammina in avanti e si compiono eventuali svolte sempre a destra.
Terminato il kinhin, ci si ferma e si fare un inchino, poi si cammina a passo normale lungo la stanza fino a tornare al proprio posto per sedersi nuovamente in za.

Sumi-e

Il termine giapponese “sumi” significa inchiostro nero, “e” invece significa pittura ed indica una delle forme d’arte in cui i soggetti sono dipinti con l’inchiostro nero in gradazioni variabili dal nero puro a tutte le sfumature che si possono ottenere diluendolo con l’acqua. Questo però non vuol dire che ogni cosa dipinta così possa meritare il nome di “sumi-e”, infatti questo tipo di pittura deve rispondere a determinate caratteristiche stilistiche.
Il vero sumi-e è essenziale, sobrio e spontaneo per non offuscare la bellezza naturale e la vera natura profonda dell’opera: pochi tratti d’inchiostro nero bastano a cogliere l’essenza e la verità, anche quella complessa.
Scrive sul suo sito (vedi in basso) il maestro Beppe Mokuza Signoritti: “I soggetti si focalizzano principalmente su quattro tipi di piante (detti i Quattro Nobili) che insieme raffigurano ciascuno una stagione diversa: troviamo rappresentata la primavera con l’orchidea, l’estate si rispecchia nell’ume (il pruno asiatico), l’autunno con i crisantemi, ed infine l’inverno viene reso dal bambù. Le quattro piante indicano inoltre le virtù dell’uomo ideale, detto junzi”.
il suo allievo Alessandro Do Ryu Sarotto ricorda anche come il sumi-e favorisca un atteggiamento compassionevole verso se stessi e gli altri, migliorando, a livello psicologico, la fiducia in se stessi aumentando la capacità di concentrazione, la capacità di calmarsi, la capacità di ascoltare e aumentando, a livello somatico (ricordiamo che i moderni studi neuroscientifici avvalorano sempre più l’antica conoscenza del mens sana in corpore sano), la coordinazione, la fluidità dei gesti, favorendo un buon funzionamento dell’apparato muscolo-scheletrico, respiratorio e cardiovascolare.
Insomma, può essere visto come una sorta di mamma dell’arteterapia.

Meditiamo, gente, meditiamo…!

Si ringrazia di cuore il sangha del Bodai Dojo di Alba (Cn), per il prezioso aiuto nello scrivere questo post e per i profondi insegnamenti che, davvero, mi trasmettono i shin den shin (“da cuore a cuore”).

Per approfondire:
• Bodai Dojo, Alba (Cn): www.bodai.it
• Sumi-e, maestro Beppe Mokuza Signoritti: www.sumi-e.it

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